Critica al Festival di Sanremo

Il Festival è stato analizzato da diverse figure di spicco della cultura italiana, valutandolo in particolare nel contesto culturale italiano degli anni cinquanta e sessanta. Nel 1969 Pier Paolo Pasolini, in un articolo pubblicato dal Tempo illustrato e intitolato Sanremo: povere idiozie, scriveva: «È cominciato ed è finito il Festival di Sanremo. Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori. Il Festival di Sanremo e le sue canzonette sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società. […]». Secondo Pasolini il Festival epitomizzava il conformismo e il vuoto culturale nella società italiana neo-capitalista. La critica pasoliniana non è assimilabile al rifiuto snobistico, pregiudizialmente ostile alle “cose che piacciono al popolo”, quanto piuttosto alla volontà gramsciana di capire i meccanismi della produzione culturale di massa e le sue strumentalizzazioni politiche. Lo storico Silvio Lanaro ha rimarcato ulteriormente questo aspetto, ponendolo in relazione all’egemonia culturale cattolica nell’Italia del dopoguerra: «il clima di castità verbale impregna ogni forma di loisir prima fra tutte la musica leggere. Negli anni in cui emerge il talento di Georges Brassens, e Juliette Greco – nelle caves del quartiere latino di Parigi – interpreta testi di Jean-Paul Sartre e Raymond Queneau, in Italia trionfano le marcette di Armando Fragna, arrivano i nostri, i cadetti di guascogna o i pompieri di Viggiù, e il seguitissimo festival di Sanremo – inaugurato nel 1951 – consacra canzoni grondanti attualità patriottica (vola colomba), satira scipita e tremebonda (papaveri e papere), ambigui omaggi all’alpinismo (vecchio scarpone), lacrimosi elogi alla maternità (tutte le mamme), squallidi inviti al servilismo (arriva il direttor!), balbettanti e involontari nonsense (casetta in canada); i baci sono generalmente proscritti, e l’amore ammesso solo per ricordare che va spesso a finir male (grazie dei fior) o che genera comunque sofferenza e infelicità (viale d’autunno, buongiorno tristezza, amare un’altra)». Il cantautore, musicologo e giornalista italiano Michele Straniero ha analizzato, nel suo saggio Antistoria d’Italia in canzonetta, la continuità culturale tra il Festival di Sanremo degli anni cinquanta e l’utilizzo della musica leggera da parte del regime fascista. Proprio il fascismo si interessò alla canzonetta, trovando in essa un efficace mezzo di propaganda e di pressione ideologica. Tale continuità si riscontra nella persona di Giulio Razzi, già direttore dei programmi dell’EIAR, in seguito direttore artistico della Rai e firmatario nel 1951 del regolamento del primo Festival di Sanremo.